LE NANOPATOLOGIE
di
dott.ssa Antonietta Morena Gatti
dott. Stefano Montanari
Nell’ambiente in cui viviamo sono presenti miriadi di sostanze inorganiche sotto forma di minuscole particelle. L’aria, l’acqua, i cibi le ospitano in più o meno grande abbondanza. Si tratta per lo più di polveri sottili la cui esistenza è sempre stata nota, ma di cui poco, anzi, pochissimo ci si è occupati fino ad un recente passato. Noi respiriamo l’aria e, inevitabilmente, con questa ci trasciniamo al seguito e introduciamo nei polmoni tutto quanto nell’aria sta sospeso, compatibilmente con le dimensioni. Gli alimenti contengono microscopici granelli che provengono a loro volta dall’ambiente o da certe metodiche di lavorazione come, per non fare che un esempio, la macinazione della farina con mole che, consumandosi, non possono che perdere materiale. Ci sono, poi, circostanze in cui particolati inorganici vengono aggiunti di proposito, come nel caso di dentifrici e di gomme da masticare, con una funzione abrasiva per la detersione dei denti. Nemmeno l’acqua è esente da questa sorta d’inquinamento. Ma qual è la sorte di quelle particelle una volta che siano entrate in contatto così intimo con il nostro organismo attraverso la respirazione o l’ingestione? Molto sbrigativamente e senza averne mai cercato veramente le prove, si è preferito trascurare il problema e pensare che non succedesse proprio nulla: questa “roba” non meglio classificata veniva inspirata e poi espirata senza lasciare traccia; veniva mangiata o bevuta o, comunque, introdotta e poi eliminata attraverso l’intestino o i reni e tutto finiva lì, senza lasciare traccia.
Malauguratamente l’assunto non è vero o, quanto meno, non lo è del tutto.
Alcuni anni fa capitò quasi casualmente all’osservazione del nostro Laboratorio di Biomateriali dell’Università di Modena e Reggio Emilia un filtro cavale che era restato impiantato per qualche tempo in un paziente e poi si era rotto, inducendo il chirurgo ad espiantarlo. Un filtro cavale altro non è se non un piccolo dispositivo metallico passivo che viene sistemato all’interno della vena cava – il vaso che raccoglie il sangue venoso dagli arti inferiori e dal bacino e lo porta attraverso il cuore fino ai polmoni – per arrestare i trombi che embolizzano, cioè i coaguli di sangue che si formano patologicamente nelle vene e che, frammentandosi, terminano la loro corsa nei polmoni, causando la cosiddetta tromboembolia polmonare. Sulla superficie di questo presidio trovammo delle sostanze inorganiche estranee tanto al materiale di cui il filtro era costituito quanto alla composizione dell’organismo: titanio ed alluminio, tra le altre. Il rilevamento era allora curioso e difficilmente spiegabile, tanto che, poiché ci mancavano altri riscontri, essendo allora i filtri cavali espiantati dal paziente un reperto rarissimo, accantonammo il dato in attesa di un’occasione per poter esaminare altri casi simili.
Passò qualche anno e, anche quella volta quasi per caso, ci vennero consegnati dei campioni bioptici epatici e renali provenienti da un paziente che soffriva di disturbi piuttosto gravi la cui natura non era mai stata accertata. In quelle piccole porzioni di tessuto, segnatamente in aree granulomatose, trovammo delle particelle di ceramica, la stessa con cui era stata costruita una protesi dentaria che il paziente portava, con ben poca soddisfazione, in bocca. Il motivo dell’insoddisfazione stava in una cattiva occlusione cui l’odontoiatra aveva cercato di porre rimedio limando la ceramica. I residui di quell’operazione erano stati inghiottiti per lungo tempo dal paziente e sequestrati dal suo fegato e dai suoi reni dove, a quanto era lecito ipotizzare, avevano provocato la granulomatosi che i medici avevano diagnosticato.
Fu quella la scintilla che innescò definitivamente il nostro interesse. Cercammo negli archivi della nostra università dei reperti bioptici di granulomatosi e questi, nella grande maggioranza dei casi, rivelarono la presenza di particelle inorganiche, principalmente sotto forma di metalli puri o, più spesso, legati. Ma anche non-metalli, il silicio fra tutti, facevano parte non di rado dei ritrovamenti.
Questi materiali sono impossibili da identificare con i metodi istologici tradizionali. Con un approccio squisitamente da fisici, sviluppammo allora una nuova tecnica di microscopia che permettesse di rilevare quelle presenze e di analizzarle dal punto di vista della chimica qualitativa. Con l’aiuto di una grande azienda olandese, e grazie ad un finanziamento della Comunità Europea che ci permise di acquistarlo, mettemmo a punto un microscopio elettronico che non richiede la metallizzazione dei campioni, cioè la loro ricopertura con un sottilissimo strato d’oro che costituirebbe un ostacolo, quando non un impedimento assoluto, al riconoscimento e all’analisi di quanto rappresenta l’obiettivo delle nostre ricerche. Il nuovo apparecchio, inoltre, consente di osservare i tessuti “freschi”, cioè appena prelevati, facilitando con ciò il nostro lavoro.
Il passo logico ulteriore era confrontare i tessuti patologici con quelli sani per accertarci che le particelle sotto inchiesta avessero davvero un significato patologico, qualunque esso fosse, ed effettivamente non ne trovammo traccia dove non c’era malattia.
Sempre più incuriositi, ci facemmo consegnare reperti provenienti da altre patologie, in particolare quelle infiammatorie come certe forme di aneurisma aortico e il morbo di Crohn. Particelle inorganiche concentrate anche in quei casi.
Nel frattempo si era reso disponibile un nuovo tipo di filtro cavale con caratteristiche particolarmente interessanti. Questo, infatti, poteva essere espiantato, senza intervenire chirurgicamente, anche dopo parecchi mesi dall’impianto. Non di rado il dispositivo recuperato dal paziente contiene piccoli trombi e, laddove c’è contatto con la parete vascolare, è ricoperto per poco più di un millimetro da fibrina o tessuto di natura connettivale. Anche in questi reperti, e più specificamente nei trombi, riscontrammo la presenza di particelle inorganiche: per esempio, tra gli altri, argento in un caso, solfato di bario in un altro, talco in un altro ancora.
L’argento è relativamente poco spiegabile, a meno che non se ne postuli una provenienza ambientale. Di fatto, l’argento era presente nel particolato rinvenuto nell’aria cittadina di vie centrali di Bologna e di Modena in cui effettuammo dei rilevamenti. Un’esposizione, specie se assidua, ad una tale fonte d’inquinamento potrebbe spiegare l’ingresso delle particelle nel sistema respiratorio e, di lì, nel circolo sanguigno. Naturalmente, come per i risultati delle altre analisi, non esiste sicurezza e restiamo nel campo delle ipotesi.
Per ciò che riguarda il solfato di bario, la paziente nella quale lo individuammo era stata operata ad un arto per un sarcoma. Il solo contatto che la signora ricordasse con il solfato di bario era avvenuto ventisei anni prima dell’atto chirurgico, nel corso di un’indagine radiologica sul tubo digerente. Che il composto sia stato sequestrato dal tessuto muscolare per esserne liberato dal chirurgo che tale tessuto aveva inciso? E’ un’ipotesi.
E il talco? Il talco è un eccipiente usato dall’industria farmaceutica per il confezionamento di compresse. Altro è difficile dire.
Il fatto indiscutibile che abbiamo osservato è che questo materiale inorganico è presente all’interno dei trombi e una delle ipotesi plausibili è quella che il materiale quei trombi li abbia provocati. Trombosi venosa profonda significa possibilità di embolia polmonare, con tutte le ripercussioni a livello cardio-respiratorio che l’affezione comporta. E se quei trombi si formassero direttamente nel sangue e non sulla parete del vaso come si è sempre detto ed osservato? Questo complicherebbe la diagnosi ma potrebbe spiegare certe forme di embolia, più o meno gravi, delle quali non si riesce a stabilire la provenienza. Ipotesi, naturalmente; domande che attendono risposta alla luce di quanto di nuovo stiamo osservando. Ciò che ci proponiamo ora di sottoporre ad indagine è il materiale che si estrae dalle carotidi ateromatose e quello che si trova nelle coronarie infartuate, per cercare di fare migliore luce su patologie vascolari e cardio-circolatorie così frequenti e così gravi.
A livello polmonare non è che le cose vadano meglio: granulomatosi e fibrosi contengono quasi invariabilmente particolato inorganico. L’ipotesi più probabile è che questo sia di origine atmosferica, pur non potendo escluderne una alimentare o farmacologica in cui la struttura polmonare abbia agito né più né meno da filtro.
E a proposito dell’aria che respiriamo, tra i pericoli che quella forma volontaria di autoinquinamento che è il fumo di tabacco si porta con sé c’è pure quello arrecato da particelle inorganiche. Secondo quanto abbiamo osservato direttamente, il fumo veicola facilmente quel tipo di materiale, ritrovato poi, come ci aspettavamo, nella mucosa orale di tumori della bocca.
Ancora in campo oncologico, un altro caso che ha destato il nostro interesse è quello dei linfomi cui sono andati soggetti alcuni militari reduci dalla cosiddetta guerra dei Balcani. Tutti i reperti bioptici dei tessuti interessati dalla patologia che ci sono stati consegnati contenevano particolato inorganico.
Riassumendo e, forse, semplificando parecchio i dati in nostro possesso, ciò che abbiamo visto è che non poche patologie, spesso classificate come di origine ignota, comportano la presenza di particelle inorganiche nel tessuto malato o, come avviene in certe forme di cancro, nell’interfaccia tra tessuto sano e tessuto malato. La natura chimica di questi materiali non pare rilevante: che si tratti di metalli, di ceramiche o di altro non ha finora dimostrato d’influenzare l’insorgere o il progredire di una malattia. Ciò che sembra avere importanza è la granulometria dei particolati e la loro concentrazione. Più si va in profondità nei tessuti, minore è la dimensione delle particelle presenti: da qualche decina di micron a qualche decina di nanometri (un nanometro equivale ad un millesimo di micron che, a sua volta, equivale ad un millesimo di millimetro.) Potrebbe esistere, poi, una sorta di concentrazione critica al di là della quale s’innesca la malattia. Un altro fatto interessante è quello della selettività degli organi e dei tessuti. Il rene, infatti, pare trattenere le particelle piccole, quelle di 6 micron, laddove il fegato, per esempio, seleziona quelle intorno ai 20 micron.
Una domanda naturale è: sono le particelle ad originare la patologia o sono i tessuti patologici a trattenere le particelle? Non lo sappiamo ancora con certezza, anche se la prima ipotesi sembra essere di gran lunga la più probabile.
E poi, perché solo una minoranza di una popolazione sottoposta a sollecitazioni come quelle descritte sviluppa una patologia? Esistono predisposizioni naturali? Se sì, di che tipo? E se esistono predisposizioni, esistono anche difese? E queste difese possono in qualche modo essere ampliate e potenziate?
Un’altra domanda è: che cosa si può fare per prevenire il problema? Per rispondere ci sarà da lavorare parecchio, con l’aiuto di tutti, senza preconcetti e senza che ognuno cerchi di difendere una propria posizione d’interesse, si tratti dell’industria alimentare, di quella farmaceutica, di quella del tabacco, di quella petrolifera, di quella automobilistica e, in fondo, di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, con la loro attività modifichino l’ambiente, con questo termine intendendo anche quello che sta sotto la nostra pelle. Il compito è difficile, è facile rendersene conto.
Al momento la Comunità Europea sta finanziando una ricerca su questo tipo di malattie, disomogenee se classificate secondo i criteri tradizionali, battezzate “nanopatologie” proprio per la presenza di queste minuscole particelle. Il nostro laboratorio ha lanciato a suo tempo l’idea ed ora è il primo responsabile dell’impresa, vastissima per scopi, che coinvolge anche università e centri di ricerca inglesi, francesi e tedeschi. Altro denaro ed altre forze sono necessari, ma l’obiettivo è importante: la salute di tutti.
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